LE CURE

Il trattamento della malattia di Parkinson pone in primo piano la terapia farmacologica. Negli ultimi anni si sono però affermate anche varie metodiche chirurgiche. Inoltre si attribuisce sempre più importanza anche alla riabilitazione. I progressi compiuti dalla ricerca medica nella lotta contro il Parkinson devono essere conquistati con grande fatica, ragion per cui avvengono a piccoli passi.

Esistono medicine per prevenire la malattia di Parkinson o che ne rallentino l’evoluzione?

Non esistono ad oggi farmaci o sostanze in grado di prevenire la malattia di Parkinson. Modificare il decorso di malattia rallentandone l’evoluzione è stato l’obiettivo di molti studi negli ultimi 20 anni. Molte sono state le molecole studiate e protocolli di studio impiegati ma nessuno ha dato un risultato positivo. Recentemente una molecola, la rasagilina, è stata studiata utilizzando un protocollo innovativo (delayed start design) con l’intento di dimostrare che questa molecola fosse in grado di modificare il decorso della malattia. Più di 1100 pazienti hanno partecipato a questo studio durato 18 mesi. I risultati sono stati positivi per la rasagilina impiegata ad 1 mg al giorno. Infatti a questa dose la molecola ha dimostrato di essere in grado di modificare il decorso di malattia. La stessa molecola impiegata al dosaggio di 2 mg al giorno non ha mostrato lo stesso risultato positivo. Indubbiamente, pur se i risultati lasciano spazio a diverse interpretazioni, per la prima volta si è dimostrato che è possibile cambiare il decorso della malattia di Parkinson aprendo la strada a progetti futuri.

Come si è scoperta la L-Dopa?

La scoperta della L-Dopa, o levodopa, è dovuta alla fortunata coincidenza del lavoro svolto da due ricercatori, che operavano autonomamente ed indipendentemente l’uno dall’altro, il dr Carlsson ed il dr Hornykievicz.

Il dr Carlsson, svedese, studiava, nel suo laboratorio di Goteborg, l’effetto che provocava la reserpina nei topi da esperimento. La reserpina è una sostanza ad azione antipertensiva, che è stata utilizzata per molti anni per la cura dell’ipertensione arteriosa nell’uomo. Somministrando la reserpina ai suoi topolini Carlsson osservò che gli animali diventavano acinetici, non si muovevano più, avevano il dorso incurvato (vedi fig 6) e presentavano tremori. I topolini avevano un comportamento simile a quello del soggetto parkinsoniano (siamo alla fine degli anni 50). Il ricercatore svedese osservò anche che la reserpina provocava la deplezione di dopamina e di noradrenalina in una determinata struttura del cervello, in particolare dello striato (lo striato contribuisce alla elaborazione dei comandi necessari per l’attività motoria, sia volontaria, sia automatica). Ebbe la fortunata idea di somministrare la L-Dopa ai topolini che avevano assunto la reserpina ed osservò che i sintomi “parkinsoniani regredivano completamente”, questo perché la L-Dopa veniva trasformata in dopamina proprio nello striato e determinava il ritorno ad una condizione di normalità.

In un’altra Nazione, in Austria a Vienna, Hornykievicz stava facendo ricerche sul cervello dei soggetti parkinsoniani, e studiava in particolare il contenuto di alcune sostanze biochimiche delle regioni cerebrali tipicamente colpite dalla malattia. Fu così che per primo individuò il principale e caratteristico difetto biochimico della malattia: la notevole riduzione di dopamina a livello dello striato. Aveva dimostrato lo stesso difetto biochimico nella stessa regione cerebrale, che era stato trovato da Carlsson nei topolini. La possibilità di antagonizzare l’effetto della reserpina con la L-Dopa, come dimostrato da Carlsson nell’animale da esperimento ha suggerito ad altri ricercatori l’idea di provare questa stessa sostanza, la levodopa, anche nell’uomo colpito dalla malattia di Parkinson. Fu così che negli anni 60 furono compiute le prime sperimentazioni nei soggetti parkinsoniani e si vide la grande efficacia della medicina che in pochi anni venne introdotta in tutti i paesi del mondo. Questa fu una grande scoperta per tutti i malati parkinsoniani, perché dopo l’introduzione della L-Dopa nella terapia della malattia di Parkinson, la qualità della vita dei parkinsoniani migliorò consistentemente e, l’aspettativa di vita, la durata della vita che in epoca prelevodopa era di molto ridotta, tornò ad essere assai vicina a quella della popolazione generale.

Cosa sono i farmaci dopaminoagonisti?

I farmaci dopaminoagonisti rappresentano una classe di medicine che hanno alcune caratteristiche comuni, anche se presentano aspetti differenti.

Voi tutti sapete che la sostanza più importante per la terapia della malattia di Parkinson è la levodopa, che, assunta per bocca, passa nello stomaco, da qui arriva nell’intestino dove viene assorbita, va poi nel sangue e dal sangue entra nel cervello, dove è trasformata in dopamina. La dopamina è il mediatore chimico, che va a stimolare il sistema di controllo dei nostri movimenti e permette quindi una attività motoria normale.

Anche i farmaci dopaminoagonisti arrivano nel cervello, ma all’opposto della levodopa, che deve essere trasformata dalle cellule nervose in una altra sostanza (la dopamina) per potere avere un effetto terapeutico, i dopaminoagonisti vanno a stimolare direttamente (di qui il nome di dopaminoagonisti diretti) il recettore dopaminergico, che è una zona specializzata della cellula nervosa, alla quale la dopamina stessa ed il farmaco dopaminoagonista si devono legare per poter agire. Stimolando questo recettore possono svolgere compiti simili a quelli della dopamina all’interno dei gangli della base.

È pertanto evidente che il meccanismo d’azione dei dopamino agonisti è differente da quello della levodopa.

Un’altra caratteristica che li differenzia dalla levodopa è la maggior durata dell’emivita plasmatica, vale a dire del tempo di permanenza del farmaco nel sangue, infatti, la levodopa ha un’emivita di 1 ora e mezza, mentre i dopaminoagonisti hanno una emivita ben più lunga. Oggi, grazie a nuove formulazioni farmacologiche, i dopamino agonisti possono garantire un’adeguata stimolazione dopaminergica anche per 24 consentendo una sola somministrazione giornaliera. Oggi è disponibile anche una formulazione in cerotto ed una in fiale per infusione continua o terapia di urgenza.

I principali farmaci dopaminoagonisti oggi disponibili nelle nostre farmacie sono:

◦ bromocriptina (Parlodel alle dosi di: 2,5-5-10 mg ) ◦ lisuride (Dopergin alle dosi di 0,2-0,5-1 mg ) ◦ pergolide (Nopar alle dosi di 0,05-0,250,1 mg ) ◦ cabergolina (Cabaser alle dosi di 0.5, 1, 2 mg ) ◦ ropinirolo (Requip alle dosi di 0,25-0,50-1-2-5 mg e Requip RP 2, 4, 8 mg ) ◦ pramipexolo (Mirapexin alle dosi di 0,18 e 0,7 mg e Mirapexin ER ) ◦ rotigotina (Neupro cerotto alle dosi di 2, 4 , 6, 8 mg ) ◦ apomorfina (Apofin fiale da 50 mg e Apofin stylo dose da 1 a 10 mg)

I dopamino agonisti possono esser utilizzati in monoterapia all’inizio di malattia o in associazione alla levodopa ed ad altri farmaci nelle fasi più avanzate.

Cosa sono i farmaci inibitori enzimatici?

La levodopa viene metabolizzata in periferia da due enzimi le dopa decarbossilasi (DDC) e le catecol-O-metiltransferasi (COMT). Le DDC vengono bloccate dalla carbidopa e dalla benserazide contenuti rispettivamente nel Sinemet e nel Madopar. Le COMPT possono essere bloccate dal tolcapone e dall’entcapone per aumentarne la permanenza nel sangue e quindi l’efficacia nel tempo. Questi inibitori vengono usati quando appaiono le prime fluttuazioni motorie. Il tolcapone (Tasmar) è potenzialmente epatotossico e quindi va usato come seconda scelta in caso l’entacapone (Comtan) non sia efficace. Oggi è disponibile una formulazione farmacologica che contiene levodopa carbidopa ed entacapone (Stalevo).

Gli inibitori delle monoaminoossidasi di tipo B (MAOB) bloccano l’enzima che distrugge la dopamina nel cervello. Questo enzima assume un ruolo prevalente nei malati di Parkinson per via della perdita delle MAOA. Il blocco di queso enzima fa si che la dopmaina aumenti nel cervello ed aumenti la sua permanenza nella sinapsi. Gli inibitori delle MAOB in commercio sono la selgelina (Jumex) e la rasagilina (Azilect).

Ci sono cure nuove?

Questa domanda è carica di una notevole componente affettiva: la speranza che la cura nuova possa essere risolutrice, o quantomeno sia più efficace e quindi più valida delle altre cure già note ed in uso. Purtroppo questa attesa viene di solito ed almeno in parte non soddisfatta, in quanto fino ad oggi cure che siano in grado di fare regredire la malattia non esistono, cioè non esiste una terapia che faccia guarire. La L-Dopa rappresenta sempre il farmaco più efficace per la terapia della malattia, per cui la scoperta di una nuova sostanza terapeutica non necessariamente deve fare pensare che sia vantaggioso ed utile adoperarla, ma va valutata, come sempre deve essere fatto, in rapporto alle esigenze del singolo individuo ed alle caratteristiche stesse della medicina.

Peraltro la ricerca farmacologica e non solo quella, è sempre attiva, e negli ultimi anni sono state scoperte ed identificate nuove sostanze, che rappresentano un ausilio utile, e che costituiscono un arricchimento dell’armamentario terapeutico a disposizione del neurologo e del malato.

Farmaci recentemente inseriti sul mercato sono il Requip RP, il Neupro cerotto, il Mirapexin ER (dopamino agonisti, vedi sopra), l’Azilect (rasagilina inibitore MAO) e diverse nuove formulazioni di Stalevo (levodopa/carbidopa/entacapone).

Con quali medicine incominciare la cura del Parkinson?

La medicina più efficace è ancora la levodopa (Madopar o Sinemet). Esiste un problema con questa sostanza, e cioè il fatto che a distanza di alcuni anni, durante i quali il malato ha assunto regolarmente e quotidianamente la levodopa, compaiono numerosi effetti collaterali assai disturbanti, ed in particolare le fluttuazioni motorie e le discinesie.

Le fluttuazioni motorie consistono nel fatto che durante la giornata il malato presenta delle variazioni consistenti nella sua capacità motoria, nell’esecuzione delle sue prestazioni motorie, per cui passa in modo più o meno repentino da una condizione definita “fase on” ad una altra definita “fase off”. Nella “fase on” il parkinsoniano è in grado di svolgere tutte le attività della vita quotidiana (vestirsi, mangiare, lavarsi, parlare, levarsi dal letto ecc.) nella “fase off” invece tutte queste abilità diventano difficoltose o impossibili e ricompaiono i sintomi della malattia (rigidità, acinesia, tremore), che erano assenti nella “fase on” (per una più diffusa illustrazione delle fluttuazioni motorie fare riferimento alla domanda : cosa sono le fluttuazioni motorie?).

Le discinesie sono movimenti involontari che si associano e si sovrappongono ai movimenti volontari, queste ipercinesie possono interessare tutti i distretti corporei (mano, braccio, piede, faccia, tronco etc.), in alcuni casi ed all’inizio della loro comparsa sono limitati ad un arto di un solo lato, di modesta entità e non provocano causa di disabilità. Quando i movimenti involontari sono più intensi, bruschi, e generalizzati diventano causa di impedimento, limitando la capacità di muoversi del malato, e disturbando l’azione volontaria, quale ad esempio tutti gli atti necessari per l’alimentazione. Le ipercinesie compaiono durante la fase on e sono l’espressione dell’attività esagerata della levodopa (per una più completa comprensione delle ipercinesie vedi la domanda: cosa sono le ipercinesie?).

Le fluttuazioni motorie e le ipercinesie realizzano la cosiddetta “fase scompensata della malattia”. Stando così le cose si è cercato di utilizzare delle strategie terapeutiche che riducessero il rischio di comparsa di questa fase, che è anche identificata come “sindrome da trattamento a lungo termine con levodopa”. La prima proposta, ovvia, che è stata fatta per ritardare il più a lungo possibile l’inizio della fase scompensata della malattia (o sindrome da trattamento a lungo termine con levodopa) è quella di ritardare il più a lungo possibile l’introduzione della levodopa stessa. Il ragionamento che sta alla base di questa proposta è molto semplice, se io ritardo l’assunzione della medicina, le complicanze verranno più tardi. Il problema non è così semplice perché si è visto che i principali fattori che facilitano la comparsa degli effetti collaterali sono la gravità della malattia, la rapidità di progressione della malattia e l’età di esordio della stessa (prima dei 60 anni). D’altra parte è importante una altra considerazione; se noi non diamo al nostro malato la levodopa per un periodo piuttosto lungo, non gli permettiamo di godere per tutto quel periodo dei benefici derivanti dall’uso della levodopa.

Esistono però altri farmaci per la terapia della malattia in grado di controllarne i sintomi, per cui si può proporre di incominciare con uno di questi: dopamino agonisti, inibitori MAOB, anticolinergici, amantadina.

Consideriamo i vantaggi e gli svantaggi di queste medicine:

anticolinergici (Artane, Akineton, Disipal, Tremaril). Questi farmaci hanno per lo più un beneficio modesto, ma in alcuni casi anche consistente in particolare sul tremore, per cui è raro un buon controllo della sintomatologia e spesso il malato chiede un rafforzamento della cura. L’efficacia degli anticolinergici non è sempre evidente, si calcola che vi sia una buona risposta nel 20% dei malati. Controindicazioni assolute all’uso degli anticolinergici sono: il glaucoma ad angolo acuto, l’ipertrofia prostatica, perché entrambe queste condizioni possono aggravarsi, e per ultimo l’età avanzata (al di sopra di 70 anni) perché facilitano i disturbi della memoria. Inoltre bisogna ricordare che non ci sono studi controllati che confermano l’efficacia di questi farmaci e che una volta introdotti in terapia è piuttosto difficile sospenderli.

Amantadina (Mantadan).Non esistono studi che ne provino l’efficacia ma viene spesso usata come primo farmaco. Gli effetti collaterali specifici sono il gonfiore alle gambe e la comparsa di reticoli venosi sottocutanei.

Dopaminoagonisti. I dopaminoagonisti hanno nelle fasi iniziali di malattia, una efficacia paragonabile a quella della levodopa e numerosi studi hanno dimostrato che la terapia iniziale con dopamino agonisti è associata ad una minore incidenza di complicanze motorie (fluttuazioni motorie e discinesie) rispetto alla terapia iniziale con levodopa. Il dopaminoagonista quando usato da solo, in monoterapia, risulta efficace nell’80% dei malati per i primi due anni, nel 50% fino 3 anni, e solo nel 20% dopo 5 anni di trattamento. Nonostante queste osservazioni il dopaminoagonista risulterebbe il farmaco di prima scelta a cui aggiungere nel decorso della malattia, quando si osserva un peggioramento, la levodopa.

Inibitori MAOB. Gli inibitori delle MAOB vengono da tempo utilizzati nella terapia del Parkinson. Il primo ad essere commercializzato è stato la selegelina. Non esistono per questo farmaco dati che ne provino l’efficacia in monoterapia anche se viene comunemente impiegato all’inizio della malattia. Di più recente introduzione la rasagilina. Questo inibitore MAOB ha provato la sua efficacia in monoterapia ed iniltre lo studio ADAGIO ha dimostrato che questa molecola impiegata alla dose di 1 mg al giorno è in grado di modificare il decorso naturale della malattia.

Prima di decidere con quale farmaco iniziare la cura sono necessarie altre considerazioni e valutazioni che vanno discusse con il malato, in particolare bisogna tenere conto dell’età, della professione, e della filosofia di vita del paziente. Alla luce delle evidenze cliniche i farmaci che hanno provato la loro efficacia nei pazienti iniziali in monoterapia sono la levodopa, i dopamino agonisti e la rasagilina. In condizioni ideali rasagilina e dopamino agonisti andrebbero privilegiati per poi introdurre a tempo debito, e senza aspettare eccessivamente, la levodopa.

La terapia a lungo andare non funziona più? C’è assuefazione alle medicine?

Una preoccupazione frequente è rappresentata dal timore che l’efficacia della medicina, facciamo l’esempio della L-Dopa, vada a svanire nel tempo lungo, e questo perché si ritiene che l’organismo si abitui alla medicina in modo tale da non sentirne più l’effetto.

Molti malati chiedono infatti: “Se incomincio la cura subito, dopo qualche anno perde ogni efficacia e poi cosa si potrà fare? Non è meglio ritardare l’inizio della cura?”

La risposta che può essere data è che la medicina, (in particolare la L-Dopa) non perde il suo effetto, ma quello che cambia è la malattia, in quanto la progressione della malattia induce delle modificazioni a livello cerebrale che fanno sì che la risposta alla medicina cambi. Un paziente parkinsoniano risponde sempre alla levodopa ma il suo effetto può essere più breve o accompagnato da discinesie. Infatti se all’inizio di malattia la risposta al farmaco è ottimale e costate con l’andare avanti della malattia l’effetto della singolo dose si accorcia e compaiono i movimenti involontari. Risparmiare farmaco non ha nessuna influenza sulla risposta futura anzi, curarsi bene all’inizio garantisce una migliore risposta terapeutico e un miglior controllo dei sintomi. Purtroppo in alcuni pazient, nelle fase avanzate di malattia possono comparire sintomi quali la mancanza di equilibrio, i piedi che si incollano a terra (freezing) i disturbi cognitivi che non rispondono alla levopoda e questo può dare la falsa impressione che la risposta al farmaco si sia perduta. Va sottolineato che anche la comparsa di questi sintomi non hanno nulla a che vedere con la terapia dopaminergica.

Si può fare il trapianto?

La malattia di Parkinson costituisce un modello privilegiato per un trattamento mediante trapianto. Infatti in questa malattia è presente una alterazione specifica, che consiste nella perdita delle cellule di una ristretta regione del cervello, la sostanza nera. Il numero complessivo di queste cellule è all’incirca di 500.000. La loro funzione è quella di secernere dopamina a livello dello striato, determinando una normale esecuzione dei movimenti volontari ed automatici. La perdita del 50% delle cellule dopaminergiche della sostanza nera provoca una riduzione dell’80% del contenuto di dopamina nello striato, e questo porta alla comparsa della sintomatologia tipica del Parkinson.

Si tratta quindi di un condizione molto semplice: perdita di cellule di un solo tipo e perdita di un’unica sostanza (dopamina); per cui in teoria dovrebbe essere facile potere impiantare nello striato cellule che secernono dopamina, realizzando in questo modo una vera cura e cioè reintegrare il sistema dopaminergico leso dalla malattia.

Il primo tentativo è stato quello proposto da Madrazo, un neurochirurgo messicano, che aveva eseguito un impianto di cellule cromaffini (cellule in grado di secernere dopamina) prelevate dalla ghiandola surrenale (si tratta di una struttura anatomica che si trova posizionata al di sopra del rene) dello stesso malato. Era quindi un autotrapianto, cioé il materiale impiantato deriva da una formazione appartenente allo stesso individuo operato. I risultati sembravano ottimi, tanto è vero che numerosi autotrapianti di surrenale vennero eseguiti in tutto il mondo. Ci si accorse purtroppo che l’efficacia era minima o nulla per cui questa procedura venne abbandonata.

Si è cercato allora di rivolgersi ad un’altra sorgente di cellule e si è pensato di potere utilizzare le cellule mesencefaliche fetali. Per questo scopo si prelevano i mesencefali (il mesencefalo è una struttura situata alla base del cervello, che contiene la sostanza nera) di 4-6 aborti alla 12 settimana di gravidanza (è necessario attendere la 12^ settimana, perché a quella data le cellule dopaminergiche sono differenziate e pronte a liberare dopamina) ed il materiale così prelevato viene iniettato nello striato dei due lati. I risultati, noti e provenienti da centri che hanno tutte le caratteristiche della massima affidabilità e serietà, hanno dimostrato che le cellule impiantate attecchiscono, e svolgono la loro funzione (secernere dopamina) tanto è vero che alcuni malati hanno ridotto di molto la levodopa assunta, ed in un caso è stata possibile la sospensione della terapia farmacologica. Si potrebbe concludere di avere risolto così il problema della cura della malattia; è necessaria purtroppo la massima cautela. Abbiamo visto come gli entusiasmi suscitati dal primo intervento di autotrapianto siano poi stati smentiti del tutto, per cui prima di fare certe asserzioni è necessaria la massima sicurezza. In secondo luogo i pazienti così curati, di cui si abbiano notizie sicure, sono ancora troppo pochi. In terzo luogo esiste un problema di natura etica che non è ancora risolto: il dovere fare ricorso per un solo trapianto ad un così elevato numero di aborti. Per questo motivo del tutto recentemente sono state trapiantate cellule mesencefaliche (dopaminergiche) prelevate dal cervello del maiale in alcuni parkinsoniani.

Stando così le cose, le ricerche attuali sono orientate a sviluppare colture di cellule dopaminergiche, che possano essere impiantate nel malato. Ricerche di questo tipo sono ancora in corso, per il momento vengono effettuate solo sull’animale, ed è pertanto prevedibile che in un tempo relativamente breve si potrà iniziare la sperimentazione sull’uomo.

È consigliabile la terapia chirurgica?

Storicamente la terapia chirurgica è stata la prima opzione adottata per il trattamento della malattia di Parkinson. Con la scoperta del deficit di dopamina e della terapia dopaminosostitutiva con levodopa alla fine degli anni ’60, la chirurgia è stata sostanzialmente relegata in secondo piano. Successivamente, quando sono stati manifesti i limiti della terapia farmacologica (sindrome da trattamento a lungo termine), vi è stata la necessità di nuove strategie terapeutiche per migliorare la qualità di vita dei pazienti.

In passato sono stati provati vari procedimenti chirurgici, tra questi quello che ha dato i migliori risultati è l’intervento stereotassico, lesionale di alcuni nuclei profondi cerebrali. Attualmente l’intervento chirurgico consigliato è quello di Stimolazione Cerebrale Profonda o DBS (Deep Brain Stimulation) di differenti nuclei situati profondamente nel cervello: il Subtalamo, il Globo Pallido interno, ed il nucleo Ventrale Intermedio del talamo. Vediamo di rendere chiaro questo metodo e di capire in che cosa consiste.

Nella malattia di Parkinson il circuito motorio è alterato nel suo funzionamento (Circuito striato-pallido-talamo-corticale) (Figura 6). Questo circuito collega tra di loro vari nuclei del cervello e permette che le informazioni elaborate da quelle stesse strutture che compongono il circuito motorio, siano precise e ben formulate per permettere lo svolgimento normale dei movimenti volontari ed automatici.

È stato possibile accertare che alcuni di questi nuclei (subtalamo e globo pallido interno in particolare) sono in uno stato di eccitazione eccessiva, funzionano troppo, per cui impediscono lo svolgimento della normale attività motoria, determinando inoltre tremore, rigidità e bradicinesia. La neuromodulazione attraverso l’elettrodo di DBS riporta alla normalità questi nuclei, impedendo questo eccesso di attività, e facendo scomparire i sintomi parkinsoniani.

Questi nuclei sono situati al centro del cervello, in profondità, circondati da altro tessuto cerebrale per cui non possono essere raggiunti con il bisturi perché troppo gravi sarebbero le conseguenze per il malato. Per raggiungerli si utilizza il metodo stereotassico, metodica che consiste nell’utilizzo di un atlante spaziale, che permette la precisa localizzazione del nucleo che si vuole raggiungere, e di una sonda sottilissima che va a posizionarsi con il suo terminale, la punta, proprio sulla struttura bersaglio: nel nostro caso nel nucleo subtalamico o nel pallido interno o nel talamo. La stimolazione del nucleo, che viene effettuata tramite uno stimolatore esterno, posto sottocute nella porzione alta del torace (come il pace-maker cardiaco), determina il blocco funzionale del nucleo stesso e il risultato terapeutico.

L’intervento di DBS è riservato ai malati che non sono più sufficientemente compensati dalla terapia farmacologica e sono transitati nella fase scompensata di malattia, caratterizzata dai problemi della sindrome da trattamento a lungo termine.

L’indicazione dell’intervento chirurgico stereotassico di stimolazione dei nuclei profondi è quindi quella del malato che abbia frequenti periodi di blocco, numerose ipercinesie, una cattiva qualità del sonno, fenomeni che riducono considerevolmente la capacità motoria, l’autonomia nell’espletamento delle attività quotidiane. I risultati ottenuti fino ad oggi con questa metodica sono molto soddisfacenti, infatti la maggior parte dei parkinsoniani che sono stati operati ne ha tratto notevole vantaggio.

Tra i target sopra indicati, si dà la preferenza al subtalamo per la sua superiore efficacia nel controllo dei sintomi e delle fluttuazioni motorie, e perché consente una notevole riduzione (in media del 60%) dei farmaci assunti. Ci si orienta verso il Globo Pallido interno se prevalgono i fenomeni discinetici, mentre il nucleo Ventrale intermedio del talamo viene utilizzato solo in caso di tremore nettamente prevalente.

Controindicazioni all’intervento sono: condizioni generali scadute e qualsiasi situazione che implichi una ridotta aspettativa di vita, un’età biologica avanzata e cronologica sopra i 70 anni, la presenza di un deterioramento intellettivo, precedenti psichiatrici, scarsa motivazione o collaborazione del paziente.

Quali sono i rischi di questo intervento chirurgico?

Oltre ai rischi generici di un intervento neurochirurgico, le complicanze più temibili sono l’evento emorragico intracerebrale (si tratta in genere di piccole emorragie intracerebrali, lungo il decorso della sonda) e i processi infettivi che comportano la rimozione dell’elettrodo. Tali complicanze si verificano in una percentuale molto bassa (all’incirca 1%) e sono tanto meno frequenti quanto maggiore è l’esperienza specifica dell’equipe chirurgica. Il paziente e i suoi familiari devono essere consapevoli che l’avvicinamento all’intervento passa attraverso una lunga e intensa fase di preparazione, durante la quale i Medici attraverso incontri, test e ricoveri giungono a conoscere a fondo le caratteristiche neurologiche, neuropsicologiche e psichiche del paziente; dall’altra parte essi devono ricevere spiegazioni esaurienti e anche tecniche, fornite con parole semplici, e devono ricevere informazioni su quale sarà il percorso e l’assistenza prima, durante e dopo l’intervento. In altre parole devono diffidare di un approccio sbrigativo che li conduca troppo rapidamente al tavolo operatorio.

I disturbi non motori nella malattia di Parkinson: quali sono e cosa fare?

Si riteneva un tempo che la malattia di Parkinson fosse caratterizzata da una sintomatologia prevalentemente o unicamente motoria. Una serie di osservazioni effettuate soprattutto nell’ultimo decennio hanno invece messo l’accento su una serie di problematiche non motorie che possono riguardare la sfera affettiva (ansia, depressione), cognitivo-comportamentale (disturbi della memoria, allucinazioni, apatia, disturbi del sonno, demenza ecc.), sensoriale (perdita dell’olfatto, dolori articolari, muscolari, sciatalgici, ecc.) e vegetativa (disturbi gastroenterici, urinari, sessuali). Sebbene la sintomatologia motoria sia quella che continua a definire la malattia di Parkinson, i disturbi non motori possono precedere l’insorgenza dei segni motori tipici ed a volte assumere una rilevanza clinica superiore (specie quando i sintomi motori sono ben controllati dalla terapia). Solo una parte dei disturbi non motori rispondono ai farmaci dopaminergici (ad es. alcuni disturbi del sonno); negli altri casi sono eventualmente proponibili i presidi terapeutici utilizzati quando le stesse condizioni si manifestano al di fuori della malattia di Parkinson.

La Fisioterapia e altro

Le persone con Parkinson avvertono difficoltà e impaccio nei movimenti, causate dalla rigidità muscolare e dal rallentamento motorio. Lamentano poi facile stanchezza, fatica e perdita generale di energia. Un aiuto a questi problemi può arrivare dalla fisioterapia classica come da una rieducazione motoria ottenuta in vario modo. Va dettoche “muoversi” è in generale di grande beneficio, non solo sul piano fisico ma anche e soprattutto su quello psicologico. Il nostro corpo e il suo apparato locomotore sono perfetti per il movimento, quindi una buona e lunga camminata, “fa star bene” tutti, non solo i parkinsoniani.

In modo più specifico è utile che un paziente si sottoponga a cicli di fisiochinesiterapia (FKT) passiva quando la rigidità muscolare “blocca” le articolazioni e ne riduce la possibilità di movimento. Questo fatto produce frequentemente dolore locale, in particolare alla spalla. In queste sessioni sarà il fisioterapista ad applicare uno “stretching” passivo di allungamento muscolare, con particolare riguardo alle spalle, alle anche e al tronco. Particolare attenzione deve essere rivolta alla tensione muscolare della schiena che può dare dolore e deviazioni laterali o in avanti; in questo caso occorre intensificare la riabilitazione per ottenere un riallineamento posturale. Per i disturbi della marcia un training con “tapirulan” (tapis roulant, tappeto semovente) è di aiuto.

Lo scopo di una seduta con il terapista della riabilitazione è anche quello di imparare l’eserciziario che verrà poi eseguito a domicilio per 15-20 minuti al giorno con l’aiuto di un familiare. A casa sarà anche possibile fare esercizi di allungamento e di attivazione muscolare con il supporto di programmi video, con la periodica supervisione di un terapista.

Bene anche la ginnastica attiva di gruppo, che può essere effettuata anche in un contesto di Musicoterapia Attiva con l’uso di strumenti musicali. Questa attività risponde anche allo scopo di far socializzare il paziente e al contempo di migliorarne il tono dell’umore.

Molti pazienti ascoltano musica ritmica per sbloccare il movimento delle gambe; è il principio della “stimolazione ritmica uditiva” che viene applicato in contesti specifici per la riabilitazione del cammino con l’utilizzo di musiche rinascimentali. In queste registrazioni il ritmo musicale aumenta progressivamente e facilitando il paziente ad aumentare il ritmo del passo.

L’utilizzo della musica come sorgente esterna a sostegno del movimento trova campo in Biodanza e Danzaterapia (tango in particolare).

Diverso è il principio della Musicoterapia Attiva dove il ritmo “terapeutico” non viene da “fuori” ma si genera “internamente” con l’utilizzo degli strumenti a percussione.

È importante ricordare alcune regole generali:

> la FKT funziona di più se il paziente è al meglio della terapia, quindi, nei pazienti con fluttuazioni motorie è opportuno che venga eseguita sempre in condizioni di “ON” terapia

> alla fine di una sessione non bisogna essere affaticati, in questo caso occorre dire al fisioterapista di alleggerire il carico

> evitare durante la giornata l’eccessiva sedentarietà

> evitare di stare per lungo tempo con una postura i flessa del tronco, del capo e delle spalle, se ad es. si ha l’hobby dell’orto o del cucito, evitare di stare con la schiena china per troppe ore

Cosa fare per i disturbi della voce e della deglutizione?

È frequente che i pazienti con Malattia di Parkinson riferiscano un calo del tono della voce con difficoltà nel modulare l’intonazione e la cadenza.

L’impaccio nell’articolare le parole può essere simile a una balbuzie o è un “freezing” simile a quello della marcia.

Innanzitutto è indispensabile mettere in pratica alcune norme di igiene vocale, come per esempio cercare di assumere una giusta posizione del capo e delle spalle, deglutire la saliva in eccesso e preparare la fonazione con una respirazione profonda in modo da dare energia alla voce

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Utile inoltre parlare scandendo le parole, evitando di raggiungere intensità elevata e fare in modo che l’interlocutore possa guardare le labbra durante la conversazione.

Esistono dei programmi di aiuto e sostegno che possono essere offerti dai logopedisti nell’ambito di una riabilitazione mirata.

La difficoltà a deglutire è un problema che va affrontato con attenzione, nei pazienti con malattia di Parkinson. In genere, queste difficoltà si realizzano insieme a severi problemi di articolazione della parola.Si può far fatica a deglutire i cibi duri e difficili da masticare come il pane, la carne, oppure i liquidi. Nelle fasi avanzate di malattia questo comporta un calo ponderale e la perdita di continuità nella assunzione delle terapie orali.

Anche per questo disturbo esistono semplici regole d’igiene dell’alimentazione che tutti dovrebbero mettere in pratica e che potrebbero migliorare la deglutizione: innanzitutto occorre evitare cibi troppo duri oppure friabili e le doppie consistenze (come la minestra); risulta poi importante assumere una posizione corretta con la schiena ben appoggiata allo schienale della sedia e gli avambracci appoggiati al tavolo; infine occorre mangiare lentamente, assumendo piccoli bocconi ed evitando di parlare o distrarsi mentre si mangia.

È importante che il paziente riferisca subito al neurologo le difficoltà nella deglutizione per cercare insieme la migliore soluzione al problema. Quando le difficoltà di manifestano occorre essere valutati da un medico otorinolaringoiatra esperto in deglutizione, in genere un foniatra, e da una logopedista. In seguito un esame elettromiografico della deglutizione è indispensabile per capire le cause del problema.

Esistono numerosi rimedi, come l’introduzione di addensanti, le gelatine per facilitare l’assunzione di farmaci, la riabilitazione logopedica, fino a tecniche più raffinate di trattamento con tossina botulinica rivolte generalmente ai pazienti con un parkinsonismo atipico. Quando il problema dovesse diventare così severo da comportare una riduzione importante dell’apporto alimentare con dimagramento ragguardevole e il rischio di infezioni polmonari da aspirazione di alimenti occorre provvedere a una gastrotomia (PEG) per una alimentazione diretta.

tratto da https://www.parkinson-italia.it/la-malattia-di-parkinson/